martedì 5 aprile 2016

Tutti i robot di Isaac Asimov


Isaac Asimov (Petroviči, URSS 1920 – New York 1992) è considerato da molti critici come uno dei padri della fantascienza, grazie a un numero elevatissimo di pubblicazioni (qualche centinaio) che spaziano in vari sottogeneri. È invece a tutti gli effetti il padre della robotica: infatti, nei suoi racconti e in alcuni romanzi, ha stilato le famose tre leggi che regolano i rapporti tra automi ed esseri umani, e ne ha affrontato le contraddizioni e le possibili difficoltà. Le tre leggi della robotica recitano infatti:
Prima legge: Un robot non può recare danno a un essere umano, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.
Seconda Legge: Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, a meno che questi ordini non contrastino con la Prima Legge.
Terza Legge: Un robot deve salvaguardare la propria esistenza, a meno che questa autodifesa non contrasti con la Prima o la Seconda Legge.
Quindi, si tratta di un sistema che non permette via di scampo e perciò del tutto sicuro. Vedremo che non è così: come dovrebbe comportarsi un robot che riceve un ordine da un uomo o una donna che si sono macchiati di delitti? Come agirebbe se dalla perdita di una o poche vite umane dipendesse il destino dell’intera umanità? Viceversa, come reagiscono gli uomini all’avvento dell’intelligenza artificiale? Come si sentono quando vengono sostituiti da quella che, sebbene umanoide, rimane sempre una macchina? Come avvengono le interazioni tra le due parti quando nascono sentimenti quali amicizia o amore? Ma un robot può provare dei sentimenti sinceri o rimangono comunque formule matematiche che imitano le sensazioni umane?
A tutto questo Asimov prova a dare risposta, analizzando di volta in volta varie situazioni che egli stesso individua e diversifica nella raccolta Tutti i miei robot, pubblicata per la prima volta nel 1982, che raggruppa racconti già presenti nelle altre opere che costituiscono l’Antologia dei robot.

La prima questione che andiamo ad affrontare è quella riguardante i robot non umani, ovvero i robot in forma animale, che in un mondo futuro, probabilmente sconquassato da avvenimenti apocalittici, naturali o artificiali, potrebbero sostituire gli animali in carne ed ossa: la tesi sembra essere quella che l’essere umano possa effettivamente provare affetto per un surrogato di amico a quattro zampe, ma non sapremo mai se questo sentimento verrà ricambiato.
Veniamo ora alle macchine vere e proprie, rispettivamente robot immobili e robot di metallo. I primi sono dei supercervelloni elettronici che hanno il compito di svolgere qualche mansione, ad esempio la gestione di una fabbrica, o la soluzione di determinati problemi matematici: la loro spiccata intelligenza li porta però a sentirsi rinchiusi nella propria scatola costretti a fare sempre lo stesso lavoro, tanto da spingerli al malfunzionamento fino a un tentativo di ribellione. I secondi sono per lo più macchine operatrici intelligenti, che si rendono protagonisti di gesti inconsulti simili a quelli compiuti dai robot immobili, ma molto più pericolosi per gli esseri umani.
I robot dalla forma umana sono, naturalmente, i più interessanti, e sono quelli cui Asimov dedica più tempo e spazio. Questi androidi possono anche presentare difetti di fabbricazione che ne inibiscono il corpo o la mente (costituita dal cervello positronico), ma cosa succede quando sorgono problemi con macchine che non hanno apparentemente alcun difetto? È la questione cui si tenta di dare risposta nelle sezioni dedicate a Powell e Donovan, due tecnici che si ritrovano spesso nei guai a causa di uno o più robot, e che si salvano nella maggior parte dei casi in modo fortuito, e in quella, molto più ampia, relativa a Susan Calvin. La dottoressa Calvin è la prima, e unica, fino al pensionamento, robopsicologa: si occupa infatti di scavare la psicologia dei robot che apparentemente non presentano alcun danno fisico, attraverso domande specifiche, situazioni estreme, fino a rischiare la propria vita per dimostrare la bontà di fondo della tecnologia positronica e delle tre leggi. In diverse occasioni è chiamata a collaborare con la polizia, nei casi in cui si pensa sia stato un robot a compiere reati, e riesce sempre a trovare il colpevole dove tutti gli altri vedono androidi tutti perfettamente uguali. Il suo carattere, però, la porta ad essere profondamente sola, priva di calore umano e incapace di amare.
Ci avviamo alla fine del volume, dove sono collocati, non a caso, i racconti che costituiscono possibili apoteosi dell’esistenza di un robot. L’uomo bicentenario è probabilmente la vicenda più nota, grazie anche al bellissimo film omonimo di Chris Columbus, con protagonisti Robin Williams ed Embeth Davidtz: il protagonista, NDR 113, ribattezzato Andrew, inizia la propria esistenza come maggiordomo e tata per la famiglia Martin, cui si affeziona tanto da volerne far parte; chiede la formale libertà al Signore (interpretato da Sam Neill), appoggiato dalle figlie, e alla fine la ottiene; nel frattempo dimostra una grande abilità nel lavorare il legno, tanto da potersi permettere un solido conto in banca e di contribuire alle spese familiari. Dopo essersi trasferito, e mentre intorno a lui le persone che conosce si ammalano, invecchiano e muoiono, decide di diventare un essere umano, facendosi prima impiantare vera pelle e veri capelli, e poi via via tutti gli organi interni. Arriva davanti a una corte che deve decretare la sua umanità, mentre si avvia ai 150 anni di “vita”: la corte rifiuta, in quanto la parte più importante di un essere umano, il cervello, rimane quello positronico artificiale. Passano altri anni, e finalmente decide di trapiantare anche quello, ben sapendo che sarebbe morto di lì a poco sotto il peso dei suoi 200 anni: allora la corte gli riconosce definitivamente lo status di essere umano, e lui si addormenta felice per l’ultima volta. Nel film, romanzato ad hoc, si interpone anche la storia d’amore tra un ormai quasi umano Andrew e la bisnipote del Signore, vicenda assente nel racconto.
Sogni di robot, che vede come protagonista ancora una volta Susan Calvin, si conclude invece molto velocemente e in modo negativo: infatti, un robot che ha confessato di aver sognato, dopo aver descritto il sogno, viene semplicemente distrutto. Non si può infatti permettere a un automa la capacità di sognare, in quanto gli aprirebbe infinite possibilità: ad esempio, non riuscendo più a distinguere la realtà dall’esperienza onirica, potrebbe non curarsi più delle tre leggi, oppure potrebbe sognare un dominio robot sugli esseri umani, e volerlo poi realizzare.
Abissi d’acciaio è il racconto più lungo del volume Il grande libro dei robot: si tratta di una vicenda a metà strada tra il fantascientifico, per la presenza dei robot in una New York futuristica e racchiusa nel sottosuolo (in quanto l’aria non è più pura), e il giallo, per il caso di omicidio che ne caratterizza la trama. Nella città di Spacetown, sopraelevata rispetto alla vecchia Terra, vivono i cosiddetti spaziali, uomini colti, retti e alquanto altezzosi, insofferenti alla rozzezza dei terrestri; qui avviene un omicidio, del quale, si dice, il colpevole deve essere un cittadino della vicina New York. La polizia metropolitana, nella persona di Elijah Baley, deve collaborare con un collega spaziale, che è un robot perché nessun spaziale scende nella sporca e malaticcia Terra. Inizia quindi una strana convivenza dei due, caratterizzata prima da un certo sospetto e da reticenza, poi da complicità che sfocia quasi nell’amicizia (se questo volesse mai dire qualcosa per un robot comunque avanzatissimo come R. Daniel): scoprono quindi una organizzazione che rifiuta le ultime innovazioni tecnologiche, primi fra tutti i robot, e propone invece un ritorno alle campagne, ormai abbandonate e lasciate ai contadini meccanici; il colpevole dell’omicidio si rivela essere un rappresentante di questo gruppo, davvero insospettabile perché insignito di un’alta carica cittadina. Il futuro della razza umana, invece, viene individuato nella ricerca e colonizzazione di altri pianeti abitabili (già trenta pianeti sono stati esplorati al momento in cui si svolge la vicenda).

Una serie di problematiche, quindi, che sulla base delle tre leggi non dovrebbero esistere e che invece sono reali ed estremamente pericolose per gli esseri umani.

La robotica sta effettivamente muovendo i suoi primi passi in questo inizio di terzo millennio: le stesse leggi che regolavano personaggi di racconti fantascientifici ora vengono inoculate nella semplice intelligenza artificiale che abbiamo creato e vogliamo portare a livelli superiori. Saranno sufficienti?

giovedì 31 marzo 2016

Il Football americano


Proseguiamo la carrellata di sport cosiddetti minori con il mio preferito, naturalmente, quello che pratico: il football americano. In Italia questa disciplina ebbe grande successo soprattutto negli anni ’80, durante i quali sono nate molte squadre ancora attive, che coinvolgevano un discreto pubblico e quindi interessava anche sponsor importanti. Il football, poi, è quasi scomparso dal panorama italiano. Negli ultimi anni sembra invece conoscere una certa rinascita, come dimostra la fondazione di diverse nuove squadre anche in piccoli centri urbani. Le zone a più alta concentrazione di compagini rimangono l’Emilia-Romagna, le Provincie di Milano e Varese, l’area metropolitana di Roma.

Il football nacque negli anni ’60 dell’Ottocento nelle università di Boston, come evoluzione del rugby a 15 giocatori. Nei decenni successivi vennero stilati diversi regolamenti, ad esempio quello riguardante la presenza di 11 giocatori in campo e quello sull’introduzione dello scrimmage. Va detto che per lungo tempo, almeno fino alla nascita delle leghe quali National Football League e American Football League, le regole fissate non hanno impedito decessi o infortuni anche molto gravi, tanto da richiedere, tra gli altri, l’intervento personale del Presidente Theodore Roosevelt nel 1905.
Ad oggi, comunque, il football è uno degli sport più popolari d’America, quando non il più popolare: quasi tutte le high school e i college ne offrono infatti tra i loro programmi sportivi la pratica, anche tramite borse di studio per gli atleti che non possono permettersi l’iscrizione ai corsi (come accade anche nel caso di altre discipline sportive come la pallacanestro e l’atletica leggera). Tutti i giocatori professionisti, che militano nella famosa NFL, provengono infatti dall’università; anche i pochi giocatori non americani sono sottoposti a un periodo di “prova” presso uno di questi istituti, che sembrano gli unici in grado di fornire la preparazione fisica, atletica e tattica necessaria.

Veniamo ora ad analizzare più da vicino questo bellissimo sport, cominciando da chi lo fa, cioè dai giocatori in campo.
Il football nella variante tackle (la più diffusa) si gioca 11 contro 11. Sono previste anche la versione 9 contro 9 (detta arena, perché negli Stati Uniti si gioca indoor, mentre in Italia ci si gioca su un campo normale, leggermente più stretto) e la versione flag, in cui non si placca ma si deve rubare la bandierina al giocatore che porta la palla.
I ruoli sono ben definiti: in attacco vi sono cinque uomini di linea (che diventano tre nel football a 9), che non possono ricevere il pallone, e altri sei uomini che invece possono. I linemen sono: il centro, grosso, forzuto e veloce con le gambe, che deve snappare il pallone (cioè farlo passare all’indietro tra le gambe) per dare inizio all’azione e poi proteggere chi lancia o chi porta la palla; al suo fianco vi sono le guardie, destra e sinistra, con caratteristiche simili ma che non devono preoccuparsi del pallone; ai fianchi esterni delle guardie stanno i tackle, destro e sinistro, che devono essere più mobili dei compagni di linea perché avranno quasi certamente a che fare con difensori più veloci. A seconda dello schema che si andrà ad eseguire, può essere presente un sesto uomo di linea, detto tight end: si tratta di un giocatore versatile, grosso tanto da poter competere con i suoi compagni di reparto, ma con buona corsa e buone mani perché potrebbe essere chiamato a ricevere la palla. Alle spalle della linea giocano il quarterback, regista e spesso capitano, che ha il compito di riferire gli schemi dettati dall’allenatore e di farli eseguire alla perfezione: un suo errore può determinare una palla persa e conseguente possesso da parte degli avversari, o addirittura una segnatura della difesa. Alle sue spalle stanno i running back, giocatori compatti e veloci che partono palla in mano e, sfruttando i blocchi della linea, corrono fino al placcaggio o alla segnatura. Più esterni, solitamente uno a destra e uno a sinistra, attendono i ricevitori: veloci, abili a smarcarsi e nel prendere e tenere il pallone, come dice il loro nome devono ricevere il lancio del quarterback e correre anch’essi fino al placcaggio o alla segnatura (nel football infatti è possibile un solo passaggio in avanti, e solitamente ci si limita anche ad un solo passaggio all’indietro benché non ci siano limiti imposti).
Per quanto riguarda la difesa, incontriamo anche qui una linea composta da tre o quattro giocatori (tre o due nella versione a 9): questi, che prendono il nome di defensive tackles al centro e defensive ends all’esterno, sono grossi, veloci e aggressivi; il loro compito consiste nel fermare sul nascere le corse e impedire od ostacolare i passaggi. Alle loro spalle stanno i linebackers, tre o quattro a seconda dello schema: velocissimi, forti e abili placcatori, devono porre fine alle corse eventualmente sfuggite alla linea e controllare le traiettorie dei passaggi corti; a volte possono essere assegnati alla marcatura a uomo di un avversario particolarmente forte. All’esterno, a uomo sui ricevitori o a zona, troviamo i cornerbacks, con caratteristiche simili ai ricevitori ma buoni placcatori: un loro errore apre infatti la strada al touchdown. Lo stesso si dica per la o le safety, giocatori che come dice il nome costituiscono la “sicurezza” contro un avversario che riuscisse a sfuggire.
A questo punto vale la pena soffermarci sulla numerazione: a prima vista, infatti, sembrerebbe che qualsiasi giocatore possa scegliere un numero qualsiasi, che raramente si vede negli sport più diffusi in Italia, come 99 o 65. Non è proprio così: gli intervalli di numeri, infatti, determinano il ruolo del giocatore, in questo modo (regolamento NFL, che può non essere seguito perfettamente in altri campionati):
1-19 – quarterback e ricevitori
20-49 – running back, cornerback e safety (da 40 a 49 anche tight end)
50-59 – linebacker e linemen
60-79 – linemen
80-89 – ricevitori e tight end
90-99 – linebacker e linemen di difesa
In tutti i casi, i giocatori con numero da 50 a 79 non possono essere destinatari di passaggio, si dicono cioè in gergo “ineleggibili”.

Per quanto riguarda il campo da gioco, è lungo 100 yards da una linea di meta all’altra (goal line) ed è largo 53,5 yards. L’area di meta, o end zone, misura 10 yards e ospita al suo interno le porte. Lungo il campo vi sono altre linee longitudinali a distanza di 5 yards una dall’altra, e dei trattini che misurano le singole yard (queste spesso non vengono disegnate sui campi italiani), e contemporaneamente determinano la hash mark, cioè il punto più a destra o a sinistra del campo da cui può partire l’azione, a seconda di dove è terminata quella precedente.

Veniamo ora alle regole basilari del gioco.
Lo scopo della formazione di attacco è guadagnare terreno fino a raggiungere la meta, cioè il touchdown (6 punti): per farlo ha a disposizione quattro tentativi per coprire 10 yards, tramite corse o lanci (ovviamente si possono coprire 10 o più yards anche con una sola corsa o un solo lancio, anzi tanto meglio), una volta superate ne avrà altri quattro e così via finché raggiungerà il fondo del campo. Dopo questa segnatura è possibile tentare un calcio di trasformazione tra i pali (o extra point, 1 punto) o una giocata “alla mano” aggiuntiva (2 punti). Ogni tentativo comincia esattamente sulla linea immaginaria presso la quale è stato fermato il tentativo precedente (sempre all’interno delle hash marks). Qualora non si riuscisse a coprire le 10 yards, si può decidere se giocare il quarto tentativo, rischiando che la squadra avversaria cominci la sua rincorsa al touchdown da posizione favorevole, si può optare per il punt (o calcio di allontanamento), nel quale comunque il pallone può essere raccolto al volo e riportato fino al placcaggio o alla segnatura, oppure infine si può tentare un field goal (o calcio piazzato, 3 punti), solitamente quando l’azione viene fermata a non più di 30 yards dalla end zone perché diventerebbe molto impegnativo.
In tutto questo, la difesa ha ovviamente il compito di impedire all’attacco di portare a compimento i propri schemi. I difensori possono anche giocare il pallone, quando il portatore viene placcato e perde la palla (si verifica un fumble, che può essere raccolto da chiunque e rimane in gioco), oppure quando si esegue un intercetto, ovvero quando il pallone destinato al ricevitore viene “rubato” al volo: in entrambi i casi il difensore che ora corre palla in mano può segnare un touchdown o comunque guadagnare molto terreno a favore del proprio attacco. La difesa può inoltre portare a referto dei punti placcando il portatore di palla all’interno della propria end zone, o facendolo uscire dal campo in corrispondenza di quest’ultima: si parla allora di safety, e vale 2 punti.
Dopo ogni segnatura, e all’inizio del primo e del terzo quarto (si gioca su quattro quarti di 15 minuti ciascuno, o più brevi nei campionati inferiori), il gioco ricomincia con un calcio o kick off, dall’altezza delle 35 yards difensive, mediante il quale si restituisce il pallone agli avversari, che, se sono abili, possono anche prenderlo e riportarlo in touchdown.
Come abbiamo visto, quindi, anche le situazioni che possono sembrare di transizione, come quelle che prevedono i calci e non il gioco alla mano, sono molto importanti perché potenzialmente consentono alle squadre in campo di guadagnare o subire dei punti.
Durante la fase attiva di gioco, i giocatori possono subire colpi, essere strattonati, spinti, buttati a terra, ma sempre in base a regole ben precise, che purtroppo limitano ma non escludono infortuni e situazioni spiacevoli: è bene dunque leggere attentamente il prossimo paragrafo.

Grande attenzione meritano infatti le protezioni consentite ai giocatori, trattandosi di uno sport di contatto fino alla collisione.
Le protezioni obbligatorie sono: il casco, che protegge la testa dalla nuca alla fronte, ai lati tramite la calotta (che di solito è la parte colorata e con adesivi che identificano la squadra), la faccia tramite la facemask o griglia e il mento con la mentoniera (tutte queste parti sono avvitate tra loro in modo sicuro); il paradenti; il paraspalle o shoulderpad, che protegge le spalle, il busto fino allo sterno e la schiena fino a un certo punto; protezioni di fianchi, coccige, cosce e ginocchia, solitamente inserite negli stessi pantaloni da gioco o in pantaloncini da portare sotto.
Protezioni non obbligatorie, ma molto usate sono la conchiglia o sospensorio, il paracollo o collar (volto a evitare buschi movimenti del collo e della testa e per questo utilizzato soprattutto dai placcatori), il paracostole (utilizzato soprattutto dai ricevitori), il backplate (per proteggere la colonna vertebrale). Vi sono poi altre protezioni meno usate, come quella per il bicipite o per l’avambraccio, che di solito vengono sostituite da fasciature o portate da chi ha già subito un infortunio nella zona interessata.
I guanti meritano una menzione a sé stante, perché possono essere considerati sia una protezione, è il caso ad esempio degli uomini di linea che altrimenti si martirizzerebbero ogni volta le mani contro le protezioni rigide degli avversari, sia un aiuto, ad esempio per chi deve ricevere e/o tenere il pallone, sia un impedimento, soprattutto per il quarterback che deve avere piena sensibilità.

Di tutte le protezioni e attrezzature descritte esistono diversi modelli e diverse marche più o meno economiche e più o meno performanti: a mio parere, il casco dovrebbe avere la priorità sulla spesa, che comunque, lo dico a coloro che si avvicinano a questo sport, può essere importante ma anche meno di quanto si creda.

martedì 15 marzo 2016

Il Rugby


Desidero inaugurare la pagina sportiva del mio blog presentandovi uno sport che fino a pochi anni fa veniva considerato “minore”, ma che negli ultimi tempi, grazie soprattutto agli sponsor e all’interesse mediatico più che alle vittorie sul campo, sta acquisendo sempre più importanza: il rugby.

Parlando brevemente della storia di questo sport, esso ebbe leggendariamente origine nel 1823, presso la Rugby school nell’omonima città, quando un giocatore di football (allora non esistevano molte discipline con questo nome, cui ci si riferiva semplicemente come “gioco del pallone”, e non erano state stilate delle regole precise), William Webb Ellis, prese la palla con le mani, corse verso l’area di porta avversaria, la schiacciò a terra e gridò “Meta!” (in inglese “try”). Dopo questo avvenimento, il rugby, così come il calcio e le altre varianti del football, venne più volte regolamentato, fino ad arrivare alle regole attuali. Va altresì ricordato che antenati più antichi del gioco del pallone si possono rilevare in sport medievali o dell’età moderna, e forse ancora più a ritroso nella storia. Si confronti, ad esempio, il “Calcio storico fiorentino”, tuttora praticato nella città.

Del rugby esistono oggi alcune varianti, di cui le più conosciute sono quelle a 15 giocatori (rugby union) e a 7 giocatori (rugby sevens); vi sono poi le varianti a 13 (rugby league), 10 o 9 giocatori (le ultime due molto rare) e quella con il minimo contatto fisico, senza placcaggi, di solito praticata dai bambini per imparare le regole e dagli adulti come allenamento o diletto (touch rugby).

Veniamo ora a descrivere la squadra di rugby a 15 (il più praticato in Italia), il campo, e alcune regole del gioco.

I 15 giocatori si dividono principalmente in due gruppi: gli “avanti” o uomini di mischia (8) e i tre quarti (7). Nel dettaglio:
- piloni (numero di maglia 1, 3, 17, 18). Sono i più grossi e forti della squadra, sulle loro spalle grava il peso della mischia e possono essere chiamati a portare palla per cercare di sfondare le linee difensive avversarie. Il loro lavoro è logorante e molto stancante, solitamente vengono sostituiti entrambi nel corso del secondo tempo, ma in caso di infortunio di un giocatore subentrato devono tornare in campo perché solo un pilone può sostituirne un altro;
- tallonatore (numero 2 e 16). Nella mischia sta in prima linea, tra i piloni. È anch’egli grosso e compatto ma deve possedere la tecnica necessaria a due fasi di gioco importantissime (che descriverò in seguito): nella mischia deve infatti tallonare il pallone dalla propria parte, stando quindi in equilibrio su una gamba sola mentre l’altra caccia il pallone, e nella touche o rimessa laterale deve lanciare precisamente il pallone ai compagni;
- seconde linee (numero 4, 5, 19 e talvolta 20). Sono solitamente i giocatori più alti, e sono anche grossi ma più longilinei dei piloni. Devono infatti sfruttare la loro altezza per arrivare sui palloni più alti, e il loro peso per infrangersi sull’avversario e tentare di rompere la difesa;
- flanker o terze linee (numero 6, 7, 20). Sono un po’ meno grossi dei giocatori già descritti ma molto veloci. Devono essere in grado di ripartire rapidamente sia nella fase di attacco per sostenere il compagno che porta palla o in difesa per placcare e fermare la ripartenza avversaria.
- numero 8 o terza linea centro (numero 8 e 20). È grande e grosso quasi come una seconda linea, veloce per partire con il pallone che esce dalla mischia, che lui stesso controlla essendone l’ultimo uomo: oltre al fisico, deve quindi possedere una ottima visione di gioco e un’intelligenza tattica acuta. Proprio per questo, non raramente è anche capitano della squadra.
- mediano di mischia (numero 9 e 21). Primo giocatore del ruolo tre quarti, è colui che introduce la palla in mischia e fa ripartire tutte le azioni dopo un placcaggio: se guardate una partita, è quel piccoletto che va a caccia del pallone sotto alla pila di compagni e avversari, detta ruck.
- mediano di apertura (numero 10 e 22). È il regista della squadra, colui che smista i palloni che gli vengono passati del numero 9. Solitamente è anche molto bravo al piede e può quindi calciare in allontanamento o piazzare il pallone tra i pali per segnare dei punti.
- primo e secondo centro (numero 12, 13, talvolta 22 e 23). Sono grossi, ma meno degli uomini di mischia, e velocissimi. Devono portare avanti il pallone, se necessario cercare di sfondare la difesa oppure passarlo ulteriormente ai compagni. Il loro ruolo è molto importante anche in fase difensiva: un errore dalle loro parti può infatti aprire la strada alla meta avversaria. Assieme ai flanker, sono sovente i migliori placcatori nelle statistiche a fine partita.
- ali (numero 11, 14, talvolta 22 e 23). Sono i più veloci della squadra: devono solitamente prendere il pallone e correre finché arrivano a destinazione o vengono placcati. Negli ultimi anni si è assistito all’avvento di giocatori nel ruolo di ala molto veloci ma anche grossi, non è raro che possano pesare 100 kg o anche di più, allo scopo di vincere lo scontro diretto con il difensore che tenta di opporvisi.
- estremo (numero 15 e 23). È veloce, preciso, e costituisce l’ultimo baluardo della difesa: un suo errore è sovente determinante. Essendo l’ultimo uomo, deve essere bravo con le mani e con i piedi, per ricevere calci di allontanamento e calciare a sua volta, oppure per smistare per i compagni. Partecipa attivamente anche all’attacco, arrivando veloce dalle retrovie soprattutto nei cambi di gioco da parte del numero 10.

Per quanto riguarda il campo da gioco, in questa sede è sufficiente dire che è lungo 100 metri da una linea di meta all’altra e può essere largo fino a 70 metri circa (è previsto un intervallo di misure consentite). Le linee continue sono quella di centro campo, da dove si cominciano le azioni all’inizio del primo e del secondo tempo e dopo ogni segnatura, quella dei 22 metri (cioè circa a metà strada tra il centro campo e la linea di meta), la linea di meta, sulla quale o oltre la quale è possibile schiacciare il pallone (e su cui sorge la porta, detta H), la linea di fondo campo e le linee di bordo campo. Vi sono poi alcune linee tratteggiate: quella dei 10 metri dal centro campo e quella dei 5 metri dalla linea di meta; lateralmente quelle dei 5 e dei 15 metri. Ognuna di queste linee risponde a delle regole ben precise e a volte anche difficili da ricordare per gli stessi giocatori, alcune delle quali saranno spiegate nel prossimo paragrafo.

Il gioco del rugby potrebbe sembrare un grande caos dove degli energumeni portano la palla finché non vengono buttati a terra da qualcun altro o uno di loro non arriva a fondo campo, oppure dove si calcia il pallone alla cazzo di cane finché uno non lo tiene in mano e decide di correre. Non è proprio così. Il gioco è dettato invece da regole molte precise e ferree e da situazioni molto particolari.
Una di queste è senza dubbio la mischia, tanto che i giocatori si dividono, come abbiamo visto, appunto tra quelli che vi partecipano e quelli che non vi partecipano: in essa i tre uomini di prima linea si legano con quelli della seconda linea, cui si legano le terze linee; al comando dell’arbitro, tutta il “pacchetto” così costituito si protende in avanti legandosi a quello avversario: le prime linee entrano direttamente in contatto, mentre le seconde e le terze spingono all’unisono per resistere alla spinta avversaria e se possibile guadagnare terreno; una volta che la mischia è stabile, il mediano può introdurre il pallone che viene tallonato e si continua il gioco. Ovviamente, in questa situazione concitata è possibile fare e subire diversi tipi di falli. Si ricorre alla mischia principalmente quando il pallone cade “in avanti” a un giocatore: i passaggi con le mani possono essere eseguiti infatti solo in linea o all’indietro.
Un'altra fase tipica e particolare è la touche o rimessa laterale: anche ad essa partecipano gli uomini di mischia e il mediano. Il tallonatore ha il compito di rimettere la palla in gioco a favore di un compagno che salta e viene sollevato da altri due per ottenere un vantaggio sul salto avversario. Anche questa fase si presta a falli e scorrettezze.
Dopo la touche, soprattutto se vicini alla meta, si assiste molto spesso alla maul: un giocatore tiene la palla in mano e rimane in piedi sospinto dagli altri; finché non cade o la spinta difensiva lo ferma, la maul può avanzare e arrivare anche fino alla segnatura. È possibile che si formi anche in altre situazioni, ma molto più raramente, ad esempio se un giocatore placcato riesce a non cadere.
Se invece cade assistiamo alla ruck: il placcato deve mettere a disposizione il pallone per i suoi compagni (pena il “tenuto a terra”), mentre viene aiutato da altri a non cadere preda di giocatori avversari che tentano di rubarglielo. Quando l’arbitro grida “ruck” i difensori non possono più cacciare il pallone ma devono attendere lo sviluppo del gioco, stando attenti a non finire in fuorigioco sulla ripartenza.

A questo punto, ho già introdotto alcune regole. Mancano però quelle più importanti, cioè quelle riguardanti il punteggio. È possibile segnare dei punti in diversi modi:
- meta. È la segnatura più ricercata, perché dà alla squadra 5 punti e la possibilità di ottenerne altri due con un calcio piazzato di trasformazione (potenziale gioco da 7 punti). La meta si raggiunge schiacciando a terra il pallone con le mani o con il tronco sulla linea di meta o al di là di essa, rimanendo all’interno delle linee laterali e di fondocampo. Qualora si verifichino più falli da parte della squadra in difesa nei pressi della propria linea di meta, l’arbitro può decretare una “meta tecnica” senza che il pallone oltrepassi la linea;
- calcio di trasformazione, già descritto in precedenza. Sottolineo che il pallone deve passare tra i pali ma sopra la traversa:
- calcio di punizione. Si tratta sempre di un piazzato, libero dalla difesa, che il giocatore deputato deve preparare e calciare entro un minuto dal fischio dell’arbitro, nel punto in cui il fallo è stato commesso. Vale 3 punti;
- drop. Calcio eseguito durante la fase di attacco, facendo prima rimbalzare il pallone a terra. Anche questo vale 3 punti.

Mi sembra opportuno descrivere la divisa da gioco e le eventuali protezioni permesse, visto e considerato anche la confusione che porta talvolta a confondere il rugby con il football americano. In questo sport i giocatori hanno calzoncini e maglietta. Punto. Sono permesse protezioni non rigide come il caschetto, utilizzato spesso dai giocatori di mischia o da coloro che hanno già subito traumi alla testa, maglie imbottite da portare sotto la divisa (sempre più rare tra i professionisti), guantini anch’essi rari. È possibile però una compilation di fasciature: andiamo dalla testa, con giri di nastro o tape a mo’ di fascia per proteggere le orecchie e la fronte, molto sollecitate nella mischia, alle braccia, gomiti, polsi, dita, alle cosce per aiutare il sollevamento in touche o alle ginocchia per limitare traumi passati.

Infine, vorrei ricordare un marchio che fa del rugby uno degli sport più amati: il rispetto per i compagni di squadra, per gli avversati e per l’arbitro. Non di rado si sente un giocatore chiedere scusa dopo un fallo o un cartellino (“sorry, Sir”), e pochissime volte si assiste a delle proteste: solo il capitano interloquisce con il direttore di gara per chiedere nota di questa o quella situazione.

Chiudo con un adagio che risale alla fondazione di questo splendido sport “il rugby è uno sport da animali giocato da gentiluomini”.

mercoledì 24 febbraio 2016

Vienna


Chi ama le città mitteleuropee, l’architettura tipica di quest’area, i parchi, i fastosi palazzi reali, non può non lasciare un pezzo di cuore a Vienna.
Anche qui, considerando la grandezza della città e le distanze da coprire, consiglio una sistemazione all’interno dell’area metropolitana: noi, ad esempio, abbiamo affittato un appartamento tramite Air Bnb proprio al capolinea, e già eravamo al limite della comodità per raggiungere il centro e le altre parti della città. Attenzione perché anche qui, come a Parigi, i costi dell’alloggio e dei pasti possono essere piuttosto elevati.

Comunque, Vienna è una città che offre moltissimi spunti.
Cominciando con i luoghi di culto, meritano sicuramente una visita il Duomo di Santo Stefano, situato in pieno centro (zona pedonale), che domina con le sue vertiginose altezze gotiche, e la sinagoga.
Per quanto riguarda i palazzi reali, immancabili a mio parere il castello di Schönbrunn, un po’ lontano dal centro ma comunque raggiungibile con i mezzi, colossale opera architettonica un tempo collocata in campagna ma ormai inglobata nella città, che ospita anche uno degli zoo più antichi al mondo; il Belvedere, molto più centrale e contraddistinto da due palazzi che si guardano attraverso un bellissimo parco, sedi di gallerie d’arte e mostre periodiche; e naturalmente l’Hofburg, il centro secolare del potere austriaco in quanto tutt’oggi residenza del Presidente della Repubblica, che ospita collezioni di oggetti anche personali appartenuti a diversi imperatori inclusa la famosa Sissi.
Tra gli altri palazzi istituzionali attivi vorrei ricordare il Rathaus, il municipio, struttura imponente di stile barocco, e il Parlamento, visitabile previa accettazione e controllo di sicurezza e solo con una guida.
Il celebre parco Prater merita almeno un pomeriggio, per passeggiare, prendere il sole, oziare, assistere a qualche competizione sportiva, recarsi al luna park permanente che offre qualsiasi tipo di attrazione. Il Donaupark è invece famoso grazie alla Donauturm, cioè l’antenna di telecomunicazioni che ricorda quella di Alexanderplatz a Berlino e ospita sulla sommità un ristorante circolare che ruota a 360 gradi, dando la possibilità di ammirare dall’altezza di 170 metri tutta la città. Lo consiglio per la cena, dal tramonto all’imbrunire.
Infine raccomando una visita guidata all’Opera statale e al Karl-Marx-Hof, il più grande edificio abitativo al mondo.

Non posso esimermi dal parlare, seppur brevemente, della gastronomia austriaca. Sappiamo che questo paese è celebre per la birra, i wurstel, lo speck e lo strudel di mele. Tutto vero. Consiglio però di provare anche dell’altro, ad esempio la famosa Wienerschitzel, nonostante sembra semplicemente una cotoletta di pollo, e la pasticceria, che vanta al primo posto la torta Sacher: se potete recatevi all’omonimo locale, ma date prima un’occhiata ai prezzi! Grande sorpresa desterà forse l’apprendere che un quartiere periferico di Vienna, cui si arriva solo con l’autobus o il tram, è conosciuto per le sue cantine: si tratta di Grinzing, grazioso borgo in collina dove è possibile gustare piatti tipici locali accompagnati da vino di produzione propria.

La nostra vacanza a Vienna è durata quattro giorni e mezzo, e ancora una volta ci è sembrato poco tempo: abbiamo dovuto ad esempio rinunciare a visitare alcuni luoghi di culto e i musei, e abbiamo fatto in tempo a recarci al Parlamento poco prima di partire.
Bene, avremo dei motivi in più per tornare!

martedì 23 febbraio 2016

Barcellona


È forse la città più bella, originale, ricca di attrattive che io abbia mai visitato.
Si tratta di Barcellona, una delle mete europee che ho recentemente visitato assieme alla mia ragazza, subito dopo il periodo a Parigi di cui ho appena raccontato.

La nostra sistemazione non era delle migliori, ma era sicuramente il meglio che si poteva trovare con poco preavviso e con una spesa ragionevole: hotel tre stelle sulla via per Badalona, piuttosto defilato ma servito di giorno dalla metropolitana e tutta la notte dall’autobus.
Proprio a causa di questo problema logistico, e anche per l’abbondanza di cose da fare e luoghi da visitare, la nostra vacanza è stata un correre avanti e indietro per non perdere veramente nulla.

Ripercorro, non in ordine cronologico ma a seconda di come affiorano i ricordi, le tappe di questo breve e ricco soggiorno.
Niente da dire, la Sagrada Familia merita il primo posto. La sua architettura, la posizione e anche il suo aspetto di opera mastodontica eternamente incompiuta possono incontrare oppure no il gusto individuale, ma credo nessuno possa rimanere indifferente di fronte alla maestosità della costruzione e al genio di chi l’ha concepita e purtroppo solamente iniziata. Si tratta di una chiesa cristiana cattolica, vi sono altari, croci, luminarie, palchetti per i cori ma sembrano tutt’altra cosa: ci si perde nel dedalo di dettagli, di curve, di colori. Le dodici torri campanarie si staccano dal suolo e sembrano proiettarsi all’infinito, si ergono sulla città e sono assurte, non a caso, a suo simbolo.
Subito dopo non può che trovar posto Parc Güell, partorito dalla mente dello stesso Gaudi, non presenta una linea retta neanche a pagarla: solamente i piani su cui scorrono i sentieri e sono fondate le case e le statue che pullulano nel parco sembrano avere un senso. Il resto è costituito da animali improbabili, famose le lucertole e la tartaruga, colonne inarcate, tetti incurvati e colori sgargianti: un sogno ad occhi aperti.
La zona olimpica, posta sopra il Montjuic, merita anch’essa una visita. Le olimpiadi sono state un avvenimento importante per la città, che vive di sport e continua ad ospitare competizioni internazionali di alto livello, e qui sono conservate e continuano a essere utilizzate le strutture appositamente costruite. Ma da questo punto si gode anche del più bel panorama sulla città: lo sguardo può ricoprirla tutta, toccare la Sagrada Familia e gli altri campanili, tuffarsi nel mare (c’è anche una funivia che conduce direttamente al porto), perdersi nel dedalo di stradine del quartiere medievale.
Infatti, il Barri Gòtic (così in catalano) è un altro luogo di estremo interesse, per l’architettura gotica, completamente diversa dal resto della città, costruita invece in modo piuttosto razionale e con vie che si intersecano perfettamente.
Torniamo a Gaudi per citare le celebri case da lui progettate, su cui spiccano Casa Battló e la Pedrera, che sicuramente per la loro unicità sono da inserire in qualsiasi itinerario.
Oltre a questi luoghi che bene o male tutti conoscono, e di cui si sente parlare spesso, consiglio una bella giornata al mare: la spiaggia è libera, si trova sempre posto perché si estende per diversi chilometri da Barceloneta verso est, il mare è caldo, ci sono sempre ragazzi che suonano e cantano, i venditori ambulanti ti portano da bere mentre sei comodamente sdraiato al sole, si può organizzare un pic-nic per pranzo o per la cena, come abbiamo fatto noi.

Devo a questo punto sottolineare la gentilezza e la disponibilità dei barceloneti: ci è capitato ad esempio di rompere un souvenir mentre passavamo vicino ad una bancarella e il venditore non ha voluto che glielo pagassimo; un signore cui ho chiesto dove potevamo comprare il jamon, il celebre prosciutto, si è offerto di accompagnarci nel retro di un ristorante e ci ha presentato come suoi lontani parenti; una cameriera si è preoccupata perché ha visto la mia ragazza che si era tolta le scarpe e pensava si fossero rotte o che avesse male ai piedi… episodi che ricorderemo con grande tenerezza!

Vorrei infine porre l’attenzione sul lato meno simpatico della città: la Rambla, o le Ramblas per meglio dire, pullulano di gente di ogni tipo, sono il posto giusto dove passare una serata anche se non si sa dove andare, perché qualcosa si trova sempre, ma bisogna fare attenzione perché soprattutto i ristoranti sono tutt’altro che di qualità e spesso le fregature sono dietro l’angolo. Attenzione anche ai borseggiatori.

Detto questo, consiglio vivamente di passare una settimana a Barcellona, di godere del mare, delle bellezze artistiche, e perché no, anche dei locali notturni. Buon divertimento!

Parigi


“Parigi val bene una messa” ebbe a dire Enrico IV, ugonotto convertitosi al cattolicesimo per sedere sul trono di Francia.
“Parigi val bene quattro viaggi in cinque mesi” potrei aggiungere io. Sì, perché, durante il periodo Erasmus della mia ragazza, svolto proprio a Parigi nel primo semestre del 2013, mi ci sono recato quattro volte, a cadenza quasi mensile, per poter passare qualche giorno con lei. Naturalmente, nei ritagli di tempo abbiamo anche visitato la città.

Cosa posso aggiungere sulla Torre Eiffel, sull’Arco di Trionfo, su Notre Dame, sulla reggia di Versailles, sulle rive della Senna, sul Museo del Louvre, che non sia già stato detto da chiunque? Mi soffermo quindi solo su alcuni spunti, consigli, appunti, che a mio parere meritano di essere condivisi per rendere ancora più piacevole un soggiorno nella capitale francese.

Tanto per cominciare, parliamo dell’aspetto logistico: se volate con Ryanair, sappiate che l’aeroporto parigino di Beauvais dista circa 80 chilometri dalla metropoli, significa poco meno di un’ora e mezza di autobus, che comunque troverete perché le corse seguono gli orari degli aerei anche in caso di ritardo; inoltre, consiglio di pernottare non dico in centro, ma almeno entro l’area servita dalla metropolitana (quella che si chiama “Metro”, perché quella che si chiama “RER” viaggia sempre sottoterra ma passa molto più raramente e raggiunge destinazioni lontane anche 50 chilometri dal centro, come è il caso di Versailles o di Eurodisney), che vi permetterà di spostarvi facilmente e velocemente. Parigi è enorme, quindi questo aspetto non è assolutamente da sottovalutare.
Secondo punto: attenzione al portafogli! Non intendo solamente attenzione ai borseggi, che pure sono all’ordine del giorno (attenzione anche a tenere distrattamente in mano il cellulare), ma veramente prestate attenzione ai prezzi, soprattutto a quelli dei ristoranti. Per decine di euro, infatti, si rischia di mangiare pochissimo e anche male: in questo caso sarebbero da prendere in considerazione i ristorantini nascosti, che propongono menù a 15-20 euro. È quello che abbiamo fatto noi e siamo stati soddisfatti. Anche i prezzi degli alberghi sono piuttosto alti per le nostre tasche, difficilmente si trova una camera per due, senza colazione, a meno di 50 euro a notte: questo problema dovrebbe via via risolversi con il progredire di Air Bnb e altri servizi simili, che purtroppo tre anni fa non esistevano. Tenete in conto questo aspetto, perché per visitare bene la città sono necessari a mio parere almeno cinque giorni o una settimana.
Cercate di sfruttare la possibilità di usufruire di trasporti a basso prezzo e musei gratuiti fino ai 26 anni: noi siamo andati in lungo e in largo per la città, siamo entrati in molti luoghi di interesse gratis o pagando un prezzo veramente simbolico.
Altro spunto: Parigi è la città romantica per definizione, non perdete l’occasione! Riva della Senna, Tour Eiffel di notte o all’imbrunire, passeggiata per gli Champs Elysées, cena a lume di candela: tutto assume qui una veste sensuale, ogni angolo di strada sembra bellissimo, ogni ponte poetico e la luce soffusa come in un sogno.

Recatevi quindi in tutti i luoghi che ho nominato e anche in altri, ma vi consiglio di dedicare un po’ di tempo alle passeggiate, a perdervi per la città, in modo da cogliere tutte le sfumature, tutti i profumi, le sensazioni che rendono un soggiorno indimenticabile.

Brasile


Veniamo ora all’esperienza che più mi ha aiutato a formarmi come persona, a farmi capire chi sono, a crescere: si tratta del viaggio nella regione Sud del Brasile, compiuto nel maggio del 2011.
La spedizione è stata organizzata dall’Associazione Veneti nel Mondo, allo scopo di far incontrare e confrontare giovani veneti e brasiliani (di origine veneta o friulana), creare amicizie e se possibile aprire a soluzioni lavorative ed economiche tra le due sponde dell’oceano. Il nostro gruppo era formato da diciassette persone, tra le quali il Presidente dell’associazione, giovani attivi nella politica locale, e studenti, a rappresentare tutte le provincie della nostra regione. Abbiamo visitato un Brasile diverso da quello che ci si aspetta: non Rio de Janeiro e le sue spiagge, non la giungla dell’Amazzonia, non le metropoli come San Paolo, ma i tre Stati federali del Sud, cioè Paraná, Santa Catarina e Rio Grande do Sul, colonizzati a suo tempo da italiani e altri emigranti, ora motore economico di tutto il Paese.

Vorrei descrivere brevemente l’itinerario. Sarà utile al lettore non ferrato sull’argomento una cartina di questa zona. Siamo partiti il 14 maggio alla volta di Colombo, cittadina adiacente alla grande Curitiba, capitale del Paraná: nei tre giorni trascorsi qui abbiamo avuto la possibilità di visitare le campagne e la città, di incontrare molte persone e parlare con loro in dialetto veneto (o lingua veneta come preferisco dire). Successivamente abbiamo effettuato un viaggio piuttosto lungo per raggiungere Concórdia, cittadina nello Stato di Santa Catarina, dove siamo stati ospitati per qualche giorno in famiglia e abbiamo potuto constatare i successi nella vita e nel lavoro di molte famiglie discendenti da emigranti. Da qui abbiamo proseguito verso il Rio Grande do Sul, facendo tappa proprio nella prima città che si incontra venendo da nord, cioè Erechim: a mio parere siamo rimasti troppo poco, vista e considerata anche l’agenda davvero piena, che includeva incontri con il vicesindaco (in questo caso sono stato nominato sul posto nostro portavoce) e con l’Associazione giovani imprenditori. Poi abbiamo raggiunto il “cuore” dello Stato, ovvero la città di Santa Maria, dove abbiamo soggiornato per cinque giorni, di nuovo ospitati in famiglia: le attività che abbiamo svolto durante questa tappa sono state molteplici, dall’assistere a uno spettacolo teatrale e a grandi feste in nostro onore, alla visita a scuole, università, fabbriche e chi più ne ha più ne metta. Tanti sono stati comunque anche i momenti di svago, come ad esempio la domenica passata in un centro sportivo dove abbiamo potuto passeggiare, consumare un ottimo churrasco tutti assieme, compagni di viaggio, ospiti, amici vari. Gli ultimi giorno sono stati piuttosto caotici: ci spostavamo di giorno in giorno, a volte sostavamo solo per poche ore, un pasto veloce con qualche autorità e poi via, verso la tappa successiva. Vorrei ricordare due tappe, quella a Doutor Ricardo dove il simpatico sacerdote padre Tremea recita e canta la messa in lingua veneta, e quella presso la cittadina di Garibaldi, nelle vicinanze della più grande Caxías do Sul.

Due settimane volate, piene zeppe di attività, momenti ufficiali, feste meno ufficiali, balli e canti. Penso sempre con affetto a tutte le persone che ho incontrato, con cui sono ancora in contatto, amici che ci hanno aperto le loro case e raccontato le loro vite, e quelle dei loro antenati, solamente per l’origine che ci accomuna, per questa lingua vera e vivente, troppo spesso sottovalutata, per le tradizioni, la dedizione al lavoro e al sacrificio, la naturale attitudine al riunirsi in comunità di sostentamento. Ne hanno passate tante i nostri amici italo-brasiliani, a cominciare da quei “trenta giorni di nave a vapore” ricordati in molte canzoni, per giungere in una terra ostile, selvaggia (o “mata”), abbandonati dal governo centrale che aveva promesso fortuna e ricchezze. Molti ce l’hanno fatta, le hanno trovate, o meglio se le sono costruite e guadagnate. Molti altri no.

Vorrei chiudere con un episodio che ho ben fissato nella memoria e mi fa ancora inumidire gli occhi: un uomo, che ci ha concesso un’intervista a favore di videocamera, quando gli abbiamo chiesto se gli sarebbe piaciuto tornare a visitare l’Italia ha risposto subito sì, ma poi è scoppiato a piangere dichiarando che quanto guadagnava non era sufficiente a pagare il viaggio. Inoltre, molte persone lì sono convinte che, qualora provassero a cercare vecchi parenti rimasti, si troverebbero porte chiuse in faccia: chi ci ha provato ha avvertito paura, da parte degli italiani, di sentirsi rivendicare qualche eredità o qualche diritto. Io, per quel che mi riguarda, vi accoglierò sempre a braccia aperte come voi avete fatto con me. Grazie di cuore.

Belgio – Olanda – Lussemburgo


L’estate del 2010 è stata teatro di uno dei viaggi più incredibili, strani, interessanti della mia vita: infatti, durante due settimane, prima in quattro e poi in tre persone, abbiamo compiuto un circuito di circa 1700 chilometri sulle strade di Belgio, Olanda, Germania (sola regione di Colonia) e Lussemburgo. L’idea è partita sempre dal nostro amico di Lisbona e il Cairo, grande mattatore di questo biennio come ormai avrete capito, ma questa volta si è unita a me e a mio fratello anche un’altra persona, che ha condiviso con noi solo la prima settimana di avventura a causa di impegni personali.

Questo il nostro itinerario: partenza da Treviso e arrivo a Charleroi, noleggio auto e tappa a Waterloo sulla strada per Bruxelles, poi Bruges, Anversa (passando per Gand e con una tappa sul Mare del Nord), Amsterdam, Colonia, Lussemburgo (via Aquisgrana e Maastricht), infine ritorno a Bruxelles con tappa a Liegi. Le città in cui abbiamo soggiornato per più tempo sono state, per ovvie ragioni, Bruxelles (complessivamente sei giorni), Amsterdam (quattro), Colonia (due), mentre tutte le altre tappe sono state compiute in giornata o con una sosta di una sola notte.

Di Bruxelles non conservo un ricordo molto positivo: probabilmente ciò è dovuto al cattivo tempo che abbiamo incontrato, grigio quasi autunnale, e al fatto che ci siamo dedicati molto più allo svago che all’aspetto culturale come avrei preferito; inoltre, la zona delle istituzioni europee, dove eravamo ospitati, mi ha dato l’impressione di un grande sperpero di risorse a vantaggio di burocrati incravattati dalla scarsa utilità. Mi sono invece piaciute la piazza principale e la Cattedrale che la domina. Provo infine molta simpatia per la piccola statua del Manneken Pis, il bambino che fa la pipì, ormai diventata simbolo della città. Direi che devo tornare assolutamente per dedicarmi di più a monumenti e musei che alla buonissima birra.

Consiglio invece, a chi si trovi a passare di lì, una visita alla graziosa cittadina di Bruges: si tratta di un piccolo borgo medievale, caratterizzato da mura e canali navigabili, il cui centro è la Piazza del Mercato, dove si affacciano anche i principali edifici religiosi, il municipio e le antiche residenze dei signori locali. Suggestivo e romantico il giro delle vie, assolutamente chiuse al traffico, in calesse. Senza uscire dalla città è possibile visitare un birrificio tradizionale, chiamato De Halve Maan (“La mezzaluna”), dove una guida spiega il procedimento dalle materie prime all’assaggio, cui abbiamo partecipato molto volentieri!

Amsterdam si riduce in una parola: merita. Ora, lasciamo da parte il facile spirito che si può fare a proposito di prostituzione e consumo di droga: noi quattro ci siamo divertiti e abbiamo goduto appieno della città senza ricorrere a questi vizi. Anche Amsterdam si può girare a piedi: quando ci siamo stati noi (parliamo di cinque anni e mezzo fa quindi non posso garantire che il servizio sia ancora attivo) c’era la possibilità di compiere un tour a piedi dei maggiori luoghi di interesse, anche in questo caso attraverso strade chiuse al traffico, accompagnati da una guida, a titolo gratuito salvo una eventuale e libera offerta. Si tratta di un ottimo metodo per farsi un’idea di quello che si vuole visitare più approfonditamente.

Alcune delle città che ho nominato sono molto piccole, ma presentano dei bellissimi centri, dei romantici scorci, canali, mura, castelli, palazzi antichi: ricordano insomma l’enorme importanza che questa parte di Europa ha rivestito tra la fine del Medioevo e l’Età moderna. Un viaggio che sono molto felice di aver compiuto, nonostante le fatiche della guida e la nostra condizione di “nomadi” per due settimane.

sabato 6 febbraio 2016

Confessioni della religione islamica


Dopo aver parlato dei vari culti che compongono la religione cristiana, è interessante e doveroso secondo me descrivere brevemente anche le correnti della religione islamica. Questo forse potrà contribuire a mitigare i pregiudizi che spesso ci confondono e la paura che i media, soprattutto in questo periodo, contribuiscono ad alimentare.

L’Islam è la seconda religione monoteista per numero di fedeli (circa il 23% della popolazione mondiale, stanziata soprattutto in Asia e in Africa), è stata fondata dal profeta Muhammad nel 622 a Medina, città in cui dovette rifugiarsi scappando da La Mecca: la fuga, o Egira, sancisce proprio l’inizio del computo cronologico islamico.
La religione si basa su cinque pilastri che ogni credente deve osservare: la testimonianza (shahada), che dimostra l’adesione del fedele; la preghiera (salat), da effettuarsi cinque volte al giorno a intervalli stabiliti; l’elemosina (zakat) ai poveri e bisognosi, in relazione alle proprie possibilità; il periodo di ramadan, ovvero di digiuno diurno; il pellegrinaggio a La Mecca (hajj), almeno una volta nella vita.
Il testo sacro dei musulmani è il Corano (al-Qur’an), considerato come l’ultima affermazione, mai più modificabile, della volontà divina attraverso la voce dell’ultimo profeta Muhammad. Non vengono riconosciuti come testi sacri quelli delle altre grandi religioni monoteiste, in quanto di origine divina ma corrotti dal tempo e della malizia degli uomini, sebbene vi siano molti profeti in comune, tra i quali Adamo (primo profeta), Abramo, Isacco, Noè, Mosè, Giuseppe, e lo stesso Gesù. Altro testo molto importante è la Sunna, ovvero la raccolta, prima orale poi scritta, di detti (o non detti) e azioni (o inazioni) imputati al Profeta.
Il luogo deputato al culto, ma non indispensabile, è la moschea (masjid), che viene anche descritta come luogo di incontro, di studio e di riposo. A livello artistico, la moschea è forse la più grande rappresentazione dell’arte sacra islamica, caratterizzata soprattutto dalla geometria delle forme, come collegamento tra dimensione umana e divina e come prova delle grandi conoscenze matematiche conseguite dal popolo arabo, e dall’assenza di raffigurazioni umane, in quanto nessun uomo, tranne il Profeta, può intercedere presso Dio. Né il muezzin (Muʾadhdhin), che chiama alla preghiera, né l’imam, esperto della liturgia, né gli ulema ('Ulam’a), profondi conoscitori e interpreti dei testi sacri (diremmo “teologi”), sono infatti da considerare paragonabili ai nostri sacerdoti.

All’interno dell’Islam sono nate nei secoli diverse correnti.
Il gruppo più importante per numero di fedeli è quello sunnita (87-90%), che riconosce la validità della Sunna come testo sacro e si arroga la vera e giusta interpretazione del Corano; è maggioritario in tutti i Paesi islamici tranne Iran, Iraq, Azerbaijan, Libano, Bahrein e Oman.
Al secondo posto si collocano gli sciiti, la minoranza più rappresentata (10-13%), che diventa maggioranza nei Paesi sopraccitati. Essi si richiamano all’eredità di ʿAlī ibn Abī Ṭālib, cugino e genero di Muhammad, che avrebbe dovuto essere il suo primo successore, o Califfo, ma venne preceduto da altri tre che gli sciiti non riconoscono. Questo contenzioso non è mai stato risolto e ha dato luogo nella storia a numerosissime e sanguinosissime guerre, e tutt’ora è causa di attriti fra gli Stati di religione islamica.
Il terzo gruppo è costituito dai kharigiti, un tempo molto più numerosi, di cui sussiste oggi solo l’ala ibadita: sostanzialmente essi si oppongono al Califfo Ali che, a loro dire, avrebbe usurpato il trono legittimo del Califfo ‘Othmàn ibn ‘Affàn.
Vi sono poi altri culti di derivazione islamica ma considerati molto lontani dall’ortodossia. I più conosciuti sono gli alawiti, una setta minoritaria di ispirazione sciita, noti alle cronache per essere il credo di appartenenza della famiglia reale siriana; i drusi, fedeli alla predicazione dell’egiziano al-Darazi e oggi presenti in piccoli gruppi solo in Libano, Siria, Giordania e Israele; i sikh, indiani monoteisti che si dichiarano musulmani anche se molti esperti ritengono si tratti ormai di una religione a sé stante; gli yazidi, che professano un culto sincretista iracheno molto antico e che presenta alcuni tratti in comune con l’islam (come pure con il cristianesimo e con l’ebraismo).

Vi sono due termini legati alla religione musulmana molto usati nelle cronache di attualità, a volte a ragione, spesso in maniera imprecisa.
Uno di questi è sharia: si tratta della legge di Dio, che riguarda il culto e gli obblighi rituali, e deve essere quindi slegata dalla giurisprudenza. Solo in alcuni casi la legge divina diventa legge dello Stato, come ad esempio in Iran e in Arabia Saudita: purtroppo anche gli ulema convengono che la pena di morte sia prevista e giustificata in caso di omicidio, adulterio, blasfemia e apostasia. Tutti gli altri casi di cui sentiamo parlare, come ad esempio le esecuzioni per omosessualità, non sarebbero quindi previsti. Nemmeno è previsto un trattamento offensivo o di sottomissione nei confronti delle donne, cui il Corano stesso riconosce diritti e doveri pari a quegli degli uomini. Ancora una volta, come possiamo vedere, è l’interpretazione sbagliata di alcuni passi dei testi sacri che determina sofferenze inaudite (ma non è forse un caso simile a quello dei roghi contro eretici e streghe?).
Il secondo termine è jihad, la cui traduzione più semplice è “sforzo”. È possibile quindi tutta una serie di possibili significati, tra i quali sembra prevalere lo slancio per raggiungere un dato obiettivo e può fare riferimento allo sforzo spirituale del singolo individuo per migliorare sé stesso. Nondimeno, molti gruppi politici e religiosi hanno utilizzato la parola jihad unicamente con il significato di “guerra santa”, che è poi la connotazione che generalmente le viene riconosciuta in occidente.

A conclusione di questo articolo, vorrei ricordare che arabi e musulmani non sono lo stesso popolo: Allah parla a Muhammad in arabo perché egli è arabo, la capitale dell’islam è in Arabia Saudita e da qui è partita la conversione di molti altri popoli. Ma non tutti gli arabi sono musulmani, né tantomeno tutti i musulmani sono arabi: anzi, la maggioranza dei musulmani sta in Asia centrale e orientale (tra gli altri Turkmenistan, Uzbekistan, Afghanistan, Pakistan, Indonesia, Cina); e altri Paesi a maggioranza musulmana non sono arabi: ad esempio Turchia, Iran, Nigeria.

giovedì 4 febbraio 2016

Confessioni della religione cristiana


Tutti sappiamo più o meno cosa sia la religione cristiana: si tratta di un culto basato sulla vita e sulla predicazione di Gesù di Nazareth (Yeshua in aramaico), fondato dai suoi stessi discepoli, di cui il più importante e conosciuto è San Pietro. Nei suoi duemila anni di esistenza, però, il cristianesimo è stato protagonista di innumerevoli dispute sulla vera essenza di Dio e del suo messaggio, tramandato tramite Suo figlio, ma spesso deviato, influenzato o mal interpretato dagli uomini: ne sono conseguite guerre, persecuzioni, lutti e morti, scismi, eresie (termine che deriva dal greco e può significare “scegliere” o “eleggere”, quindi originariamente privo della connotazione negativa che oggi gli viene comunemente riconosciuta).

Vorrei fissare l’attenzione sulle diverse confessioni che sono nate in questo lungo periodo, partendo da quelle più diffuse e vicine a noi.

Il cattolicesimo si identifica con la Chiesa di Roma e conta il maggior numero di fedeli al mondo. Riconosce l’autorità del vescovo di Roma, il Papa, come successore dell’apostolo Pietro, e si basa sui dettami dei padri della Chiesa, di volta in volta confermati o modificati dai concili ecumenici. Le caratteristiche principali sono certamente note alla maggioranza degli italiani: l’individuo segue un percorso nella propria vita che è segnato da alcune scadenze, simboleggiate dai sacramenti (battesimo, confessione, prima comunione, cresima, matrimonio, sacerdozio, estrema unzione), volto a scegliere il bene per ottenere l’accesso al paradiso ed essere ammesso nel Regno dei Cieli dopo il giudizio universale, atteso per la fine dei tempi; vi sono un certo numero di dogmi (cioè di regole e dettami cui bisogna credere senza porsi nessuna questione) quali la Trinità, ovvero la natura tripartita della divinità (padre, figlio e spirito santo), la verginità della madre di Gesù (Maria, il cui culto è anch’esso diffusissimo nell’Europa cattolica e in Sud America); la resurrezione di Gesù dopo tre giorni dalla morte in croce; il sacerdote è vicario di Dio e può raccogliere la confessione e perdonare i peccati.

In Europa orientale, parte dell’Asia e parte dell’Africa il culto che conta il maggior numero di fedeli è quello ortodosso, emanazione delle Chiese di lingua greca sorte nell’Impero romano d’Oriente. All’interno di questa confessione vi sono moltissime suddivisioni, che corrispondono generalmente allo Stato che le ospita (rito greco, rito russo, rito bulgaro e così via) o addirittura alla città (Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli). Esistono inoltre le Chiese ortodosse orientali: siriaca, copta (Egitto), armena, etiope, eritrea.
Lo scisma tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa è avvenuto nel 1054, quando i due capi, papa Leone IX e il patriarca Michele I Cerulario, si scomunicarono a vicenda: quello che appare più come una disputa politica venne a determinare una frattura anche in termini teologici e dottrinali, mai più rinsaldata.
Il culto rimane sostanzialmente molto simile a quello cattolico. Le differenze principali riguardano: una parte della preghiera detta “Credo”, l’autorità del papa e del patriarca di Costantinopoli (cioè su chi sia il più importante), il cesaropapismo (riconosciuto dagli occidentali), alcune norme liturgiche.
L’altra importante confessione diffusa in Europa occidentale e in Nord America è quella protestante: nata nel XVI secolo con le riflessioni teologiche di Martin Lutero (luteranesimo), Jean Cauvin (calvinismo), Huldrych Zwingli (zwinglianesimo o Chiesa riformata svizzera), e altri, è diventata Chiesa ufficiale in molti Paesi. La Chiesa anglicana, ad esempio, è assurta definitivamente a Chiesa ufficiale nel Regno Unito dopo lo scisma voluto dal re Enrico VIII per discordie con il papa: da allora il monarca o la regina sono anche capo della Chiesa oltre che dello Stato. L’idea centrale del protestantesimo è la pesante critica alla Chiesa cattolica romana e ad alcune pratiche molto frequenti nel medioevo, quali il culto dei santi (considerato simile al politeismo), la vendita di cariche ecclesiastiche e di indulgenze, l’invenzione del purgatorio come luogo di espiazione dei peccati (che a sua volta favoriva la vendita di indulgenze a favore del defunto). Le differenze riguardano quindi più l’aspetto spirituale e lo stile di vita che l’aspetto confessionale: la più grande innovazione in questo ambito è però il sacerdozio universale dei credenti, che quindi possono leggere e interpretare le scritture, confessarsi e comunicare con Dio se lo desiderano, senza doversi obbligatoriamente rivolgere al sacerdote (figura comunque esistente) e senza necessitare di indulgenze.
All’interno della confessione protestante vi sono altri culti, poco diffusi in relazione a quelli già citati ma che vengono spesso nominati, anche erroneamente. Tra questi vorrei ricordare i mennoniti, la più numerosa delle Chiese anabattiste (cioè che rifiutano il battesimo, soprattutto dei bambini appena nati), che sostanzialmente ricerca un ritorno alle origini del cristianesimo, rifiutando gli scritti dei padri della Chiesa e tutti i concili a partire dal quello di Nicea I (325); gli amish, che sono anche i più riconoscibili a livello estetico perché, rifiutando la modernità, vivono in comunità separate dal mondo esterno, vestono abiti fatti a mano e gli uomini portano lunghe barbe, inoltre utilizzano cavalli e carri come mezzi di trasporto e fanno quasi a meno dell’energia elettrica nelle loro attività quotidiane; i quaccheri (o Società degli Amici), spesso confusi con gli amish, propongono il sacerdozio dei credenti, il rifiuto delle gerarchie ecclesiastiche e dei sacramenti, l’abolizione della schiavitù, il divieto di bere alcolici, il ripudio della guerra.

Un paragrafo a parte merita il movimento detto restaurazionismo, utilizzato per intendere un complesso di chiese e comunità che nascono dal desiderio di tornare alla chiesa cristiana primitiva e che si manifesta in varie forme. Le comunità più estese fra queste sono: i mormoni, caratterizzati dalla figura individuale del primo fondatore e aventi come testi sacri il libro di Mormon e libri aggiuntivi, oltre la Bibbia, dove le dottrine cristiane vengono rielaborate in modo completamente univoco e originale; i testimoni di Geova, che ripropongono il cristianesimo del I secolo che prevede la predicazione di casa in casa, si identificano con l'opera missionaria fatta da Gesù e dai suoi discepoli predicando quella che definiscono "la buona notizia del Regno"; la Chiesa di Cristo, organizzata in comunità di credenti che riconoscono la piena ispirazione di tutta la Bibbia e per le quali il rispetto di tutto quanto in essa è contenuto è l'unico mezzo per fare la volontà di Dio. Sottolineo che sia mormoni che testimoni di Geova non sono riconosciuti come cristiani dalle altre chiese.

Infine, vorrei citare l’avventismo, che trae le sue origini dalla predicazione di William Miller, il quale prevedeva il ritorno di Gesù Cristo nel periodo 1843-1844; dopo la mancata venuta il movimento si disperse ma uno dei gruppi fondò la Chiesa avventista del settimo giorno, caratterizzata dall’aspettativa di un ritorno del Messia, dal rifiuto dell’inferno e dell’anima immortale, da uno stile di vita naturale, da attività sociali e solidali, dal riconoscimento del sabato come festività.