martedì 2 febbraio 2016

I modi di dire: una meraviglia italiana (prima parte)


Recentemente ho avuto l’occasione di riflettere su quanti modi di dire esistono, in lingua italiana, relativi alla disciplina del pugilato. Di conseguenza, ho pensato di raccogliere alcuni detti e modi di dire che ritengo particolarmente affascinanti e peculiari.

Cominciamo proprio dall’ambito della boxe, la “nobile arte”. Quante volte abbiamo sentito dire “sei suonato”, “gettare la spugna”, “è alle corde”, fino al famosissimo (sono certo che ognuno di noi lo usa almeno una volta al giorno) “K.O.”? Anche se non ci abbiamo mai pensato, tutte queste frasi brevissime ma di immediato impatto provengono proprio dal mondo del pugilato. Vediamole insieme.
L’aggettivo “suonato”, mutuato dal participio passato del verbo suonare, indica il suono della campanella, azionata dai giudici di gara, che determina la fine dell’incontro di boxe. Spesso l’atleta sconfitto ne esce disorientato e scosso, a volte privo di sensi: la persona cui ci si riferisce nella vita di tutti i giorni presenta quindi, secondo chi usa il termine, la caratteristica di agire in maniera scriteriata.
Gettare la spugna” descrive invece l’azione compiuta dall’allenatore (proprio il gettare in mezzo al ring la spugna che solitamente si usa per idratare il volto del pugile), che, colta la grave difficoltà in cui si trova il suo pupillo, preferisce porre fine all’incontro che assistere a una penosa sconfitta.
Una persona si definisce “alle corde” quando si trova in una situazione senza via di uscita: l’espressione ricorda infatti molto bene la posizione del pugile, sul bordo del quadrato, in balia dell’avversario, senza scampo.
“Oggi sono proprio KO”. Chi non l’ha mai detto? Bene, le due letterine stanno a significare “Knock out”, termine inglese usato in molte discipline di lotta per indicare la definitiva sconfitta di uno dei due atleti. Il KO può essere determinato dall’arbitro, secondo il proprio giudizio, anche se l’interessato potrebbe o vorrebbe continuare l’incontro.

Spostiamoci, ora, ma di poco. Avete mai sentito dire, in dialetto romanesco, “te gonfio”? Si tratta di una minaccia, non troppo velata, di pestare il malcapitato fino a provocare ematomi che vanno, di fatto, a gonfiarne il volto. Questa espressione è stata resa celebre dagli innumerevoli film di genere “commedia all’italiana”, spesso ambientati a Roma o dintorni, ma per fortuna quasi sempre si trattava solamente di un espediente narrativo per strappare una risata al pubblico.

Cambiamo decisamente argomento per uno dei miei detti preferiti: costruire una “cattedrale nel deserto”. È oramai una figura retorica molto utilizzata (purtroppo), ad esempio in gergo giornalistico, per descrivere un’opera, pubblica nella maggior parte dei casi, maestosa, enorme, costosa, ma di dubbia o alcuna utilità: immaginatevi la costruzione di una cattedrale nel deserto, un edificio monumentale, dispendioso in termini di risorse, tempo e denaro, che rimarrebbe sempre chiuso per assenza di fedeli...

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